Il recente dibattito scaturito a seguito delle polemiche sulla statua di Indro Montanelli nei Giardini Pubblici di Milano ci ha ricordato che la memoria storica è un terreno conflittuale sul quale, in gioco, non c’è una partita di sensibilità individuali, ma di visioni della società. In ballo non c’è la veridicità dei fatti passati, ma le domande del presente.
Su Indro Montanelli, nello specifico, non abbiamo molto da aggiungere: il matrimonio contratto con una ragazza di 12 anni, “comprata” nel 1936 in Etiopia e il ruolo avuto nella propaganda razzista del regime fascista sono elementi incontrovertibili per un giudizio complessivo.
Ci preme, però, partire da questo ennesimo dibattito per una riflessione sulla memoria storica come pratica educativa. Perché abbiamo la sensazione che le nuove generazioni non siano alfabetizzate in tal senso, che facciano “tabula rasa” di una coscienza storica e politica che sembrava consolidata? Perché, malgrado le celebrazioni istituzionalizzate che ogni anno ci ripropongono i principali “punti di non ritorno” della nostra contemporaneità, tra i giovani sembrano diffondersi linguaggi e aggregazioni para-politiche che richiamano segni e ideologie che hanno seminato morte in Europa e nel mondo?
Innanzitutto va detto che la funzione civica della trasmissione della “storia patria” sembra transitata dalla scuola ai mass-media: ma se la scuola aveva un chiaro intento pedagogico nella trasmissione della memoria storica, i mass-media rispondono a logiche di mercato. La polemica come mero oggetto di spettacolo ha sostituito lo scambio inter-generazionale che animava la passione civica della memoria come fatto educativo. Se le istituzioni non sono più avvertite come gli attori principali nella costruzione di una memoria condivisa, è necessario che educatori, docenti e genitori assumano la consapevolezza di “stare nella partita” e imparino a dialogare criticamente. A tal proposito, proviamo a suggerire alcune piste concrete.
Innanzitutto, uscire dalla cronaca, dal pathos della polemica e tornare sulle fonti storiche. Il matrimonio di Montanelli con una bambina di 12 anni, da alcuni giustificato come “madamato”, cioè come una pratica che in Etiopia era consentita, va inserito nel più ampio contesto del colonialismo e delle violenze che esso ha comportato. Proviamo a rileggere ciò che Montanelli stesso scriveva su “Civiltà fascista” nel 1936: «Non si sarà mai dei dominatori, se non avremo la coscienza esatta di una nostra fatale superiorità. Coi negri non si fraternizza. Non si può, non si deve. Almeno finché non si sia data loro una civiltà». Cosa ha portato l’affermazione di quella presunta superiorità? Quali le conseguenze? Il colonialismo è mai riuscito a “dare una civiltà”? E, piuttosto, è possibile imporre una civiltà? Problematizzare, dunque, è il punto iniziale, fuori dalle prediche e lontano dalle polemiche.
Il secondo passo necessario è riflettere sulla costruzione della memoria, sul modo in cui essa viene comunicata e usata. In queste settimane è stato detto che a Montanelli si possono perdonare quei peccati di gioventù così come sono stati “perdonati” simili peccati a Pasolini o l’inclinazione all’alcolismo di De André con le sue reazioni violente. Ancora una volta, quando il problema viene riportato (e minimizzato) sul piano delle scelte individuali, va fatta notare una differenza che ci aiuta a stabilire un metodo: Pasolini e De André (ma gli esempi potrebbero essere molti di più) nella loro opera hanno “de-monumentalizzato” sé stessi, decostruendo il proprio mito, fino quasi a fuggirlo. Montanelli (e anche qui la lista è lunga) si è invece prestato negli anni alla costruzione del mito di sé, diventando una sorta di possibile narrazione revisionista del fascismo.
Il terzo e ultimo momento è la domanda critica: a cosa e a chi serve, quindi, questa memoria oggi? Proviamo a mettere in relazione i “fatti” di quella memoria con i “problemi” di oggi. Perché molti si sono accapigliati a difendere il “madamato” praticato in epoca coloniale (curioso rispetto delle altrui tradizioni, mentre migliaia di etiopi venivano trucidati), mentre nell’Italia di oggi aumentano le violenze per motivi di genere e i femminicidi? Cosa si nasconde dietro quella memoria? Forse, come ha scritto Ida Dominijanni su “Internazionale”, “un crampo misogino che periodicamente e ostinatamente torna a tentare di barrare l’accesso alla sfera pubblica di donne che osano contestare le icone del virilismo?”.
Tre passi, dunque, per praticare la memoria come fatto educativo: tornare alle fonti e al contesto storico; conoscere e decostruire il processo di costruzione delle versioni ufficiali e del dibattito su una memoria storica; porre nuove domande, coi piedi nel presente, a quella memoria affinché non sia manipolabile.
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